L’attrazione che sillabari e lemmari, che non sono mai mancati nella letteratura – se il riferimento ai Sillabari di Parise è ovvio, quello a Alphabet di Paul Valéry lo è forse di meno –,[1] esercitano sia sui lettori sia sugli scrittori discende dal metodo che adottano: l’ordine alfabetico, quell’a-b-c che da qualche secolo o da un millennio, con lo sviluppo di nuove tecniche o indicazioni grafiche, organizza il sapere.
Ovviamente questi ‘trapianti’ nella letteratura, o nelle opere di finzione, hanno specialmente scopi parodistici o scopi altri rispetto alla trasmissione di un sapere ‘scientifico’. Nondimeno, ed è per certo il caso del romanzo di Sinigaglia, il trapianto (o il metodo) produce, una contaminazione feconda: e quanto spesso la contaminazione è feconda!
Per rimuovere ogni equivoco su questo punto, occorre ribadire che il metodo (μέϑοδος) resta, problematicamente, anche nelle sue applicazioni ‘aliene’, ricerca, investigazione, percorso, via – ὁδός significa via.
Paradossalmente, ma di sicuro ragionevolmente (il suffisso reiterato è un dispetto), questo sillabario sinigagliano è sossopra, all’incontrario, ché il sapere – ma quale sapere? – o l’indagine o il percorso… insomma, ché un po’ di tutto questo impone di imboccare la strada nel verso opposto per giungere alla verità, alla causa o al colpevole, come scrive Sinigaglia; e al silenzio che una debolezza – tornerò fra un istante sulla ‘debolezza’ – meno tormentata avrebbe imposto fin dall’inizio se l’inizio non fosse anche (al)la fine. Mi viene in mente quella pagina di Merlau-Ponty (in Le Visible et l’invisible) sulla debolezza inspiegabile del filosofo che parla e che se solo aderisse all’Essere tacerebbe.[2] Ma alla propizia «aureola» del silenzio, come la chiama Sinigaglia (p. 32) che consente di «strappare le parole alla storia» (sempre Marelau-Ponty), è dedicato un capitoletto un del Sillabario («S come Silenzio» giustappunto).
Una faiblesse inexplicable (ancora Merlau-Ponty) – un malessere, una malattia e poi una depressione, il dimidiamento dell’impulso vitale – spiega l’autore nella sua esemplare prefazione,[3] lo spinge qui – ma il faut encore ajouter l’immancabile medico che è figura bazzicata dalla letteratura (Zeno, il Valéry dell’Idée fixe, Céline…) – a principiare la stesura del suo libro: se la beanza non lo avesse scisso non vi sarebbe stata alcuna necessità di scriverlo: di scrivere un’operetta autobiografica, «auto-bio-grafica».[4] Che scaturisce dunque come (auto)analisi, come scavo, come indagine, come ricerca di una verità, s’è detto, di una causa, di un colpevole. Non abbiamo ragione di dubitarne e nondimeno ciò non esclude – e non può escludere – lo scetticismo e l’ironia e lo humour (una voce del Sillabario peraltro), perché strappare la parola notturna alla storia è compito insieme arduo e autovessatorio oltremisura.
È infatti all’insegna di una levità che non si dirà calviniana che inizia questo libro con la lettera Z («Z come Zoo»). Subito, il Nostro, con sottile umorismo, fa notare che se avesse cominciato con la A, in gioco ci sarebbero stati gli animali («A come Animali»).[5] Lo zoo è l’ambiente (Umwelt), quella porzioncina di Sardegna in cui in quel preciso momento il narratore – chi dice io nel romanzo – si ritrova a vivere, circondato da animali, da gatti e da cani. Ma la descrizione di questo ambiente diventa subito una ‘cosmografia’: al regno animale della lettera Z segue quello vegetale della V («V come vegetazione») cui viene riconosciuta una sorta di superiorità, fino a raggiungere l’universo mondo e quelle galassie che «non mi fa[nno] pensare a Dio» bensì alle «fissazioni paranoiche di certi megalomani» (p. 20).
Una prima svolta si ha con la lettera P in «P come Padre». Non c’è vagabondaggio o ricognizione del mondo che non comporti un ritorno a sé. La morte recente del padre, una delle possibili cause del malessere, sospinge il Nostro nel passato; e ve ne saranno innumerevoli in questo libro. Ma se ogni autentico ritorno al passato è ritorno del ‘rimosso’ e non mero inventario di avvenimenti, l’indagine si fa ostica.[6] Intanto l’autore è assai dubbioso: «Gli psicanalisti prosperano sulla retorica dell’amor parentale» (p. 37). E lo psicanalista troverebbe assai sospetta quella contestazione dei ruoli – ne trarrebbe materia per la sua diagnosi. Il capitoletto dedicato al padre è però davvero sincero e forse persino ‘liberativo’.
Difficile proseguire una disamina dettagliata dei lemmi (delle parole) di questo sillabario restando nei limiti di una recensione. Segnalo il capitolo dedicato alla figura insolita e a suo modo stupefacente di Clara in «L come Lontano»[7] e il capitolo intitolato «I come Inedito».[8] Segnalo anche «E come Eros», in cui la figura del ‘satiro’ finisce per abbandonare socraticamente[9] la sua metà animale, o il suo eros animale. Mi soffermerei invece un momento sul capitolo «H come humour».
È questo il frammento dove Sinigaglia compie la sua analessi più ardimentosa. (Una seconda svolta). In «H come humour» c’è la scoperta, da parte del bambino, dello humour o dell’umorismo; scoperta che si colloca alla fine, una volta conquiso (acquisito) il principium individuationis. Ma prima di ciò c’è la raffigurazione del bambino silenzioso, smagato (in senso dantesco): «Nel silenzio [ancora il silenzio!] e nell’inadeguatezza stavo, lo confesserò, benone: sono una natura pigra, sensuale, contemplativa: non aspiravo all’affermazione ma al piacere: non all’ammirazione ma all’amore»; poco oltre: «Le mie curiosità si concentravano principalmente sulla suzione degli alluci, l’osservazione sporadica e assolutamente non sistematica della vita delle formiche e dei ragni … il godimento ineffabile del piacere della defecazione» (pp. 96-97). Il bambino si convince di non essere riconosciuto o di essere irriconoscibile, «di essere soggetto a mutamenti somatici continui» (p. 97). Finché l’anomalia di una indomabile rosetta dei capelli nei saloni dei barbieri non fa sbocciare la sua individuazione: «Soffrivo le pene dell’inferno, per tutta la durata della complessa, avventurosa operazione: però, quando mia madre compariva ad un tratto nello specchio, tutta luce, e sospingeva la tintinnante porta a vetri, e immergeva con abnegazione amorevole il suo buon odore nelle puzze nauseabonde delle brillantine, allora, oltre alla gioia inesprimibile del ritorno, provavo, immediatamente, anche l’emozione, per me così rara da metter le vertigini, del protagonismo, il parrucchiere prendeva subito a parlar di me come di un caso specialissimo, inquietante, senza alcun dubbio non meno unico, dal punto di vista tricologico» ecc. (p. 99).[10] Il paradosso della rosetta (p. 102), spiega Sinigaglia in pagine intense, inizierà il bambino al pensiero e, soprattutto, recupererà a questo pensiero nascente l’eccezione o la disarmonia, per esempio quella della rosetta: «Così entrai nell’intelligenza della vita da una porta trascurata e probabilmente trascurabile» (p. 106). Eccezione e disarmonia che, non è difficile capirlo, appartengono allo humour o all’umorismo. Ma mi interrompo qui e lascio al lettore il piacere di scoprire il «paradosso della linguetta» (p. 106).
L’esplorazione attorno al malessere e alla sua eccezionalità, indagine che non rigetta il paradosso, lo humour, e in «D come Dilazione» la civetteria scaramantica di un compimento dei ‘torsi’ costantemente rinviato giacché imparentato con la morte, assume indirettamente, in «G come Giallo», genere narrativo assai amato di Sinigaglia, e in «F come Freud», il carattere dell’indagine poliziesca. Sono queste pagine strepitose. Sinigaglia concede, in una sorta di mise en abyme, che la «G di Giallo» «parl[a] di questo sillabario che non è un sillabario» (p. 139). Come nei gialli maigretiani, i prediletti, la scoperta dell’assassino – ma non vi sarà una «A come assassino» bensì una «A come Aldilà» – passa attraverso una progressiva identificazione dell’investigatore (di Maigret) con il suo indiziato. Il lettore di Simenon, scrive Sinigaglia, «che aspettava il premio della verità (lo svelamento del mistero), trova il castigo di una verità più profonda, di una nudità ulteriore: una sorta di squallore abissale e universale che informa di sé ogni ambiente, che si può respirare nell’aria di ogni interno come un odor di cavolo; il lettore resta su questa verità ultima snudata dalla rimozione dell’ottavo velo:[11] la disperazione della condizione umana non ha in sé nessuna grandezza, e quindi nessuna possibilità di riscatto» (p. 128).
Nemmeno in un aldilà, va da sé. E qui torno a Merlau-Ponty e a quel suo tacere sempre frustrato, a quella debolezza che lo spinge a parlare. Sinigaglia avverte di essere scivolato «dalla terra dell’ora a quella dell’ormai»: e cioè di essere scivolato in qualche modo in un aldilà: «Non mi meraviglierei se domattina un autorevole personaggio si presentasse alla mia porta e mi comunicasse che sono morto circa un anno fa». Nulla di amaro in ciò o di beffardo. Ma nemmeno di ingenuo. Sinigaglia sa che questo aldilà, nella sua ambiguità, è solo un transito o un errore – giacché (in) errore è ogni verità in quanto muta – «nella già pressante necessità di andare oltre raddrizzando [il sillabario]» (p. 232).
Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario, TerraRossa, 2023, pp. 233, €, 16,90.
[1] Aggiungo ancora, a mero titolo di esempi, il Dictionnaire des idées reçues flaubertiano, la Nuova enciclopedia di Savinio, Abbecedario di Czesław Miłosz.
[2] Maurice Merlau-Ponty, Il Visible e l’invisibile, trad. it. di Andrea Bonomi,Bompiani, Milano, 1993, p. 143.
[3] Si veda anche l’ultimo capitolo, «A come Aldilà», pp. 231-232.
[4] Impiego un espediente grafico di Carlo Sini su cui non ho tempo di soffermarmi.
[5] Il percorso del Sillabario non ha affatto bisogno della progressione alfabetica né della sua inversione perché, come si dirà più avanti, non è affatto un sillabario.
[6] E d’altra parte è fin troppo ovvio che «farsi una ragione del passato è indispensabile per avere futuro» (p. 26).
[7] Una sola citazione: «Clara un giorno o l’altro, nella sua lontananza, farà qualcosa di miracolosamente superfluo, come un fiore» (p. 78). Questa divenire vegetale, pianta o rizoma, cui si è già accennato è motivo ricorrente. P. 92: «La vita dello scrittore hanté dai propri inediti sublimati in ectoplasmi … è una vita in certo qual modo vegetale: la vita di un tronco d’albero, cui convergono tutte le radici e dal quale si dipartono tutti i rami». P 159, a proposito dei ragazzi: «Li cullavo lungamente, esplorandoli con una gradualità levigata e fluida, con leggerezza vegetale».
[8] Sinigaglia è rimasto a lungo un autore inedito.
[9] Lo ha argutamente notato Tommaso Giartrosio.
[10] Mi si perdonerà la lunghezza della citazione ma intendevo anche offrire un esempio della finezza di questa prosa.
[11] Subito prima aveva paragonato le indagini di Maigret alla danza di Salomè.
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