Marcel Ritrovato di Giuliano Gramigna

Un’operazione di repêchage azzeccatissima quella di Il Ramo e la foglia edizioni con il Marcel ritrovato di Giuliano Gramigna. Critico militante, narratore e poeta sulla rotta della sperimentazione, firma del «Corriere» sin dall’inizio degli anni Cinquanta e per oltre un cinquantennio (con una interruzione) – e il suo nome compare su «Paragone», «Aut Aut», «Il Verri», «Alfabeta» –, una predilezione per le (neo)avanguardie letterarie (il Gruppo 63, nella cui prima raccolta antologica compare un’anticipazione del Marcel), per la nuova critica (Barthes), per la psicoanalisi (Freud e Lacan), Giuliano Gramigna non è stato precisamente relegato nell’ombra dato che è proprio nell’ombra che, in un certo senso (ma non si vorrebbe eccedere), si è sempre (ri)trovato. Il narratore e, allo stesso tempo, il critico. Allora, a distanza di circa dieci anni dalla pubblicazione di Viaggio al termine del Novecento, una silloge di recensioni edita da Bruno Mondadori (con una introduzione di Paolo Di Stefano che inquadra egregiamente la figura di Gramigna e di cui l’estensore di queste linee è qui debitore), l’uscita del romanzo del 1969 (Marcel ritrovato) va salutata con favore.

La predilezione del Nostro per Proust è stata sin qui, e con chiara intenzione, taciuta sebbene il titolo la renda manifesta. La fortuna di Proust in Italia è argomento, nonché esulante i limiti di una modesta recensione, al di sopra delle capacità del recensore. Nondimeno si richiamerà qui quella proustothérpie, secondo l’espressione di Anna Dolfi, di cui il singolare romanzo di Gramigna («precoce») può essere considerato un ‘esercizio’ (si veda la premessa di A. Dolfi a Il ‘tono’ Proust, Firenze University Press, 2022, pp. 12-13; il volume collettaneo accoglie un intervento di Giuseppe Girimonti Greco e di Ezio Sinigaglia che nella nuova pubblicazione del Marcel per Foglia d’oro hanno avuto un ruolo demiurgico). D’altra parte che la scrittura, nel suo intreccio inscindibile con il vivere, sia phármakon (φάρμακον), Gramigna non se lo era mai nascosto: è, dichiarava in un’intervista (si veda la già menzionata introduzione di Paolo Di Stefano), «impegno vitale, anzi preferirei dire mortale, nel senso che la scrittura è una fatica disperata, distruttiva».

Bisognerà ora spiegare come tutto ciò sia all’opera in Marcel Ritrovato.

Si direbbe che a fronte delle duecentottanta pagine (di questa edizione), la storia qui narrata sia esigua: il che, va da sé, non rappresenta un fallo. E, tuttavia, rivela lo sperimentalismo dell’invenzione. Ma di ciò in seguito.

Il romanzo si articola in tre parti disuguali: corpose le prime due, concisa la terza. La prima è ambientata a Milano, la seconda a Parigi, la terza di nuovo a Milano, ma nell’imminenza di una partenza del protagonista. Già, il protagonista. Ha un nome, Bruno, uno status sociale (irrimediabilmente borghese), ambizioni frustrate di romanziere, un lutto recente da elaborare (la morte del padre), una sessualità episodica e istintiva, una pletora di nevrosi, un amore di gioventù non risolto. Ha quarantacinque anni: i quarantacinque anni che l’autore (l’autore e cioè, qui, il narratore che irrompe mediante embrayage) dichiara implicitamente in un punto (p. 195: «È il 7 novembre 1967 verso le quattro e tre quarti del pomeriggio, con i lampioni del corso Garibaldi accesi da pochi minuti»).

E il Marcel del titolo? Marcello/Marcel è l’antagonista in un senso appena sfumato: non solo è il rivale che ha conquistato e sposato la donna amata in gioventù da Bruno, ma è anche colui che, con un gesto spericolato di ribellione, personifica una emancipazione che trova in Bruno, che si è assunto il compito di riportarlo da Parigi, una risonanza di sentimenti e disposizioni.

Non si contano, nel romanzo, le incursioni, mediante embrayage, del narratore, anche con il ricorso a spazi peritestuali (le non infrequenti note a piè di pagina in funzione di integrazione o contestazione ironica del testo, le glosse, un’appendice tra il terzo e il quarto capitolo della prima parte). Qui prende forma lo sperimentalismo menzionato in precedenza. Meglio, una delle sue forme. Vi si aggiunge poi quella alternanza e sovrapposizione dell’io narrante (e narratore) e dell’egli, la più problematica assimilazione del narratore con quella dell’autore (come non manca di rilevare Sinigaglia nella sua postfazione; e si veda pure il proclama dell’autore alle pp. 234-235). Per concludere, e non da ultimo, l’erosione dell’identità del protagonista (ancora Sinigaglia), e cioè quelle sue raccontate identificazioni simulacrali con Marcello (un esprit libre), con l’abbé Casanova (con il suo grano di pazzia), con il padre defunto cui si approssima nel conseguimento di un’età adulta, di una mezza età (si veda p.e. p. 207).

Questa osservazione finale non ‘nega’ però al protagonista una sua traumatica Bildung. E qui la solennità ironica della memoria (riecco Proust) entra in gioco. Bruno è autore di un romanzo raté, drogato dalla Recherche (è anche, si veda a p. 46, il giudizio che il padre consegna a un biglietto); un romanzo autobiografico (titolo: Un matrimonio sbagliato) che risale a quell’amore giovanile per Roberta ma che «aveva finito per riassorbire ed adeguare a sé tutta la realtà, stratificandola ad un unico livello mnemonico» (p. 83). All’imbalsamazione di quelle esperienze corrisponde, Bruno lo ammetterà alla fine, una «giovinezza vecchia», una giovinezza «prolungata oltre il suo limite naturale», dunque una «malattia» (p. 281); e un rancore per l’operosità della «Milano stercoraria», con una definizione folgorante in apertura del romanzo (p. 11), l’insofferenza per il potin borghese meneghino (si pensi alla paradigmatica soirée mondaine in casa della sorella). Sarà allora il passaggio (soggiorno) a Parigi a risvegliare Bruno, giacché Parigi, dice il narratore è quel «‘dove’ che fino dal semplice nome [promette] ciò che manterrà: di rovesciare come un guanto … Alla fine si sarà più vicini alle proprie unghie, capelli, nervi, visceri, genitali, fobie, vulnera naturae» (p. 167). Sicché a Parigi, confessa all’abbé, Bruno diviene un «ex adoratore della memoria, una specie di ex seguace della dea Kali mnemonica» (p. 205). Il rientro a Milano, infine, è quello di un convalescente: «Diminuiva man mano, anzi era già quasi scomparso il vecchio rancore contro l’infatuazione per la memoria … recuperato ormai non il passato … ma l’amore per il passato che è uguale all’amore di un qualsiasi altro momento presente o futuro» (p. 280). (Ecco la proustothérpie).

Si è parlato di un racconto forse non così minimo, e di un’esplorazione creativa (lo sperimentalismo) le cui sfaccettature sono state messe in luce (e che Gramigna medesimo mette in luce p.e. a p. 184). In effetti, è proprio questa esplorazione a dare vita e sostanza alla narrazione. Ciò che emerge con particolare sfolgorio è una lingua ‘metastatica’ che accoglie prestiti linguistici, il vernacolo, le lingue straniere e, in maniera quasi rousseliana, un’invenzione che indulge in descrizioni estese che si fanno tuttavia perspicue, accoglie personalissimi elenchi delle navi, criptocitazioni, una rigogliosa topografia (su cui si è soffermato Andrea Gialloreto; si veda il suo contributo in Non dimenticarsi di Proust, a cura di A. Dolfi, Firenze University Press, 2014, pp. 362-363; di grande rilievo la seguente citazione dal nostro romanzo, a p. 169 della nuova edizione: «Si legge dunque la città, cioè Parigi, come un libro o meglio come quel quaderno sul quale sono state riportate tutte le contingenze del passato e del futuro però rimpastate in un presente senza fine, dove il passato è sempre quello cui non si vorrebbe rinunciare ma lievemente alterabile nel senso della felicità, proprio come nei sogni»). A conti fatti, un magnifico oggetto letterario.

Giuliano Gramigna, Marcel ritrovato, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2023, pp. 293, € 17,00.

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