Il volo dell’occasione di Filippo Tuena

In un passo didascalico del suo romanzo, Il volo dell’occasione (finalmente riedito da TerraRossa qualche mese fa; il passo è a p. 149), FilippoTuena, che è uomo coltivato, menziona l’Iconologia del Ripa, e cioè a dire di Cesare Ripa (1560?-1625), nome nient’affatto sconosciuto e che troverete con certa frequenza negli indici dei nomi notevoli di taluni libri. Scriveva Ripa a proposito dell’Occasione: «Donna, ignuda, con un velo a traverso, che le copriva le parti vergognose, e co’ capelli sparsi per la fronte, in modo, che la nucha restava tutta scoperta, co’ piedi alati, posandosi sopra una ruota, e nella man destra un rasoio. I capelli tutti rivolti verso la fronte ci fanno conoscere, che l’Occasione si deve prevenire, aspettandola al passo, e non seguirla, per pigliarla quando ha volto le spalle, perché passa velocemente, co’ piedi alati posasi sopra alla ruota, che perpetuamente si gira. Tiene il rasoio in mano, perché deve essere subita a troncare ogni sorte d’impedimento». L’Occasione è il Kairos (Καιρός), il momento propizio che, a dire il vero, non esclude un sapere, una sapienza tecnica e vaticinante, ma che nella tragedia ha nell’accecamento una costante.

Questo è il ‘tema’ del Volo dell’occasione, l’idea che dovette (si apprezzerà la formulazione congetturale) stuzzicare uno scrittore al suo secondo romanzo, siamo nel 1994, che un’occasione, tutta sua, si proponeva di coglierla. È ciò che un lettore non troppo disattento ricaverà dalla lettura della preziosa postfazione dell’autore alla già citata nuova edizione del Volo.

Ma forse (anche qui si apprezzerà il ‘forse’ congetturale) il Nostro pensava anche a l’incipit di un altro libro, all’incipit di Ferito a morte di La Capria. Lì, egualmente, una «Grande Occasione» (come vuole la retorica delle maiuscole): un fucile da subacqueo e una spigola grigio-azzurra; e qualcosa di temuto che si ripete (la «Cosa Temuta»): specie di pigrizia che impone al corpo di disobbedire, una freccia sul fondo sabbioso, la «Grande Occasione Mancata». È un sogno, un rêve e un manque nella pienezza della vitalità, che dunque non è tale.

Queste ultime considerazioni ci torneranno utili più avanti. Ma ora, in ossequio ai criteri che ‘disciplinano’ la stesura di una recensione passabile, ecco un sunto parziale della trama.

In una Parigi fatalmente metafisica (p. 89), ma con ironia, fra Montmartre, i passages, le case d’asta, il celebre Drouot, l’altrettanto celebre Café de Flore (con irrefutabile virtuosismo, p. 15: «L’Aleph dev’essere qui intorno, a poche centinaia di metri. Il Lapis Niger, il Miliarium Aureum, l’origine di tutto, l’imbusto che ingoia ogni cosa, il sottoscala che mostra l’universo»), i boulevards, il Marché aux Puces, un giovane uomo, l’io narrante, si imbatte in un uomo sulla cinquantina, dall’aspetto bigio e dimesso di nome Renant. Gli incontri si ripetono. Il narratore è sorpreso dal fatto che, in due occasioni diverse, questo Renant acquisti lo stesso orologio da tavolo: un orologio d’alabastro verde salvia sormontato da una ballerina bronzea. Lo tallona e una mattina, e però casualmente, lo incrocia al Flore. Qui si colloca una svolta nella vicenda. Mentre il narratore osserva Renant sorseggiare Pernod al tavolo, dal piano superiore fa la sua entrata teatrale o cinematografica, hitchcockiana, la dama bianca, e cioè Blanche; infine, poco dopo, un terzo personaggio, un giovane turco in smoking. È il triangolo amoroso che farà vacillare il narratore di lì innanzi. Infatti, qualche minuto dopo, dileguatisi gli altri due personaggi, Renant confida al protagonista il suo proposito di assassinare Blanche. (En passant annoto qui un altro passaggio virtuosistico e memorabile: la descrizione di un uovo sodo, p. 29: «Si sviluppa dall’interno per forme concentriche e separate. Non ha suture, fratture, cuciture. È perfetto. Nient’altro al mondo è perfetto come un uovo sodo. Forse soltanto il corso de tempo e l’esito della morte lo sono altrettanto»). Tormentato dalla confidenza di Renant, il narratore interpella l’amico Adophe, un ispettore di polizia dai modi spicci e un tantino stereotipati; una rapida indagine porta però alla luce un fatto sconcertante: un assassinio come quello progettato da Renant e commesso da un uomo di nome Renant è avvenuto il 18 marzo del 1948. Il narratore inizia a sospettare che il ‘suo’ Renant intenda replicare quell’assassinio nei minimi dettagli. A caccia di informazioni, contatta il giornalista che all’epoca seguì il caso per il «Figaro», tale Renè Morel, il quale si mostra dapprincipio piuttosto riluttante. Occorre interrompere qui il sunto. Aggiungerò un dettaglio: il narratore si è perdutamente innamorato di Blanche.

Su questo narratore vale la pena di soffermarsi un momento. Non apparirà ozioso ricordare qui che, a questo io narrante, l’autore, nella prima edizione del 1994, aveva prestato il proprio nome. Anche i numerosi cenni al mondo antiquariale e agli oggetti desueti (il portasigarette d’argento vermeil di Blanche, l’orologio d’alabastro verde salvia sormontato dalla ballerina bronzea, e cioè l’Occasione, di Renant) sono, per così dire, ingredienti biografici. Ora, il tentativo illusorio di «dare un senso di verità a una storia totalmente di fantasia» (ancora la postfazione, p. 174) è ciò che accentua il sospetto della inattendibilità del narratore – anche di quello anonimo delle edizioni successive.

È quello che, d’altra parte, il narratore medesimo ‘confessa’ attribuendosi il ruolo dello scrittore («Avrei raccontato la verità? O era già romanzo quello che stavo per narrare?», p. 34); e il suo formulare ipotesi, il suo fantasticare, le ricostruzioni e le razionalizzazioni, il seminare indizi… questi ‘appunti narrativi’ ne fanno (anche) un trickster. Il che diventa tanto più interessante (e divertente) se si considera che i personaggi, quelli ‘irreali’, sono giustappunto degli spettri, dei revenants. Renant (storpiato in Revenant!), Blanche e Altay, i protagonisti del tragico triangolo amoroso, in effetti, appaiono, nella finzione, soltanto al narratore che li osserva, li descrive, li bracca, ne prevede le mosse. Inoltre, le sue interazioni con loro, quando avvengono, comprovano una volta di più la loro ‘natura’ di attori, di maschere, di spettri che, senza passato e senza futuro, si piegano a ripetere le azioni che hanno da sempre compiuto, fino al tragico e reiterato(!) epilogo. Così appare del tutto impossibile, votato allo scacco (patetico?), il tentativo del narratore di divenire personaggio, e cioè un fantasma (… «l’occasione … per entrar a far parte attiva di quella storia», p. 145).

Per quanto innamorato della sua storia («innamorarti anche di questa storia»… con susseguente morale: «Scappi sempre dalla realtà che ti appartiene» p. 35), dei suoi personaggi («lei, la bella fanciulla esangue; lui, il malinconico, el desdichado; l’altro, il ricco seduttore turco» p. 35), e soprattutto e ovviamente di Blanche, «bella come una torta nuziale» (p. 20), e «marcia appestata, col mestiere che faceva (p. 115); per quanto innamorato di «quell’isola del tempo» (p. 130) che è assieme la vita eterna dei revenats e la vicenda raccontata, qualunque vicenda raccontata, il narratore si osserva, osserva se stesso e il proprio narrare, con ironia, con humour. Allora quel tentativo (l’occasione, chronos che si sdoppia in chronos e kairos) creduto (forse) riuscito per un momento diviene subito un trucco, uno di quei trucchi di Aleph, l’illusionista confinato nel suo teatro di immagini, e, da ultimo, un disturbo neurovegetativo, un eccesso febbrile (p. 166).

È Morel, il cronichista che per primo, nel ’48, ha scritto di quel duplice delitto e di quel suicidio, che per primo ha commerciato con i revenants, (l’omonimo dell’inventore di Bioy Casares che ‘materializza’ la primavera e uomini sull’isola e che si innamora di una donna) a suggerire al narratore, a quarant’anni e più di distanza la ‘morale’ per nulla consolatoria e difettosa: «Un soffio soltanto per capire quel che veramente avevamo dentro al cuore. Ma noi non lo sappiamo. Non lo sappiamo mai. Non possiamo giurare sull’intensità dei nostri desideri, sulla profondità dei nostri sentimenti» (p. 169). Un manque nella pienezza della vitalità, si diceva all’inizio, una caduta dell’intenzionalità; ma forse (forse!) l’apaisement di un racconto perfetto; forse (forse!) la necessità presentita di una ‘svolta’ – quella che, di lì a poco, il Nostro avrebbe impresso alla propria narrativa. (Sicché, ciò che è poco ammissibile e non troppo apprezzabile, si è finito qui per sovrapporre l’autore al narratore).

Quel che pare notevole, in questo romanzo, fra le altre cose, è la presenza precoce dei temi cari a Tuena: la memoria (imaginatio/phantasia), il simulacro (il revenant), il sogno (il rêve). Ne accenna, ai ‘temi’, il bravo Giovanni Bitetto su «L’indiscreto» – ma nessuna allusione al Volo (il pezzullo è del 2017) –, tralasciando la crisi (κρίσις), la scelta cruciale che in quegli anni Tuena faceva sua: quel ‘processo’ al documento quale voce ridotta al silenzio. Un’altra illusione incantevole, ma più rassicurante.

Filippo Tuena, Il volo dell’occasione, TerraRoosa, 2023, pp. 175, € 15,50.

Lascia un commento

Blog su WordPress.com.

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora